Telecamere dappertutto: il "Grande Fratello" del clan Conte

L'analisi, parte 4. Il fortino illegale svelato dai collaboratori: «Lui ci vedeva perché aveva le password di tutte le telecamere».

sabato 26 febbraio 2022 9.50
A cura di Nicola Miccione
Come una goccia cinese sulla roccia. I poliziotti della Squadra Mobile di Bari e del Commissariato di P.S. hanno violato il tempio bitontino della droga.

Non solo in via Pertini, nella zona 167, enclave del clan Conte, ma anche, a partire da settembre del 2017, in un quadrilatero di strade conosciuto come il "Ponte" che va da via Germano a corte de Tauris, passando da via Sant'Andrea per chiudersi in piazza Fortinguerra (l'inaugurazione della nuova piazza fu salutata dai fuochi d'artificio esplosi in pieno centro storico, nda), vedette e telecamere vigilavano sui pusher con funzioni di «sicurezza» (il clan Conte era in guerra con il rivale Cipriano), di «allerta» (nei confronti delle forze dell'ordine) e di «controllo» (dell'operato dei sodali).

Un lavoro lungo, circostanziato, attento. Ci è voluto tutto l'impegno degli investigatori, durato anni, per espugnare il fortino della droga.

A Bitonto, gli uomini di Domenico Conte, «capo indiscusso della contestata associazione a delinquere, il soggetto che impartisce ai suoi sodali le direttive da seguire, che finanzia l'acquisto della droga e che prende contatti direttamente con i fornitori», erano ben organizzati: vigilavano sulla loro sicurezza con la tecnologia di alcuni monitor su cui confluivano le riprese delle telecamere puntate sulla strada (risoluzione discreta, pixel sufficienti a trasmettere un'immagine nitida, nda) e gli uomini vedetta, così da non rischiare di essere sorpresi dalle forze dell'ordine.

Un trucco geniale, non solo nella zona 167, ma anche nei pressi di Porta Robustina. È il collaboratore di giustizia Rocco Papaleo, in passato affiliato ai Conte, a raccontare ai magistrati della Distrettuale Antimafia «l'interruzione della "pace armata" tra il clan Conte e il clan Cipriano e il conseguente insediamento di una base di spaccio, da parte del primo, in pieno centro storico della città», nella piazza del "Ponte".

«E lì c'è una casa che noi abbiamo aggiustato, abbiamo messo portone di ferro, telecamere… il macello abbiamo messo», ha detto Vito Antonio Tarullo. «Quando abbiamo aperto la zona di spaccio l'abbiamo aperta in un locale abbandonato. Poi noi abbiamo installato delle telecamere, in modo tale che potevamo vedere l'arrivo dei Carabinieri. All'interno del locale c'erano sempre due persone, uno che spacciava ed uno che controllava le telecamere», ha aggiunto Papaleo.

Vedette sempre all'erta, telecamere puntate in tutte le direzioni e persino un sistema che permetteva di monitorare la piazza di spaccio da remoto, anche da smartphone. «Stavamo nella fase di poter utilizzare il wi-fi, poi però grazie all'aiuto di uno che sa manomettere, venne e ci attaccò l'impianto al wi-fi, in modo tale che noi vedevamo loro sopra alla televisione, vedevamo anche noi dai telefonini».

Il boss che riusciva a spiare, grazie alle telecamere che aveva fatto installare all'interno della sua casa popolare di via Pertini e in un altro suo appartamento, in via Isonzo, i movimenti dei clan rivali o delle forze dell'ordine, «da casa sua - ha detto un altro pentito, Sabba - riusciva a vedere anche le telecamere della zona del "Ponte" e della zona 167».

Una sorta di "Grande Fratello" direttamente sullo smartphone di «Mimm U' Negr». A confermarlo anche Tarullo: «Lui ci vedeva con tutte le telecamere perché aveva le password di tutte le telecamere».